L’idea nasce circa dieci anni fa, quando mi trovavo in Cile. Nei mesi che precedevano la mia partenza il teatro di Artegna aveva iniziato la sua attività e fra i primi spettacoli c’erano stati “Zitto Menocchio”, portato in scena da Massimo Somaglino, e “l’Insium” di Glauco Venier. Me li sono portati entrambi sulle ande e ho iniziato a sognare. Tanto era lontano il paesaggio arido di Atacama dalle verdi colline del Friuli, tanto più vicina sentivo la mia terra e il desiderio di condividere con altri l’esperienza, per molti versi unica, che avevo il privilegio di vivere. Ed è stato con quei due personaggi in testa che ho cominciato a mettere da parte delle idee, a cullare un insium che prima o poi, ne ero certo, si sarebbe realizzato.

Se i primi passi di questo progetto si sono mossi a La Silla, sulle propaggini meridionali del deserto di Atacama, è stato con l’inizio delle operazioni a Cerro Paranal, 600 km più  nord, che l’idea ha iniziato a prendere corpo. Paranal è un luogo straordinario. A 2600 metri di altezza, in uno degli angoli più inospitali della Terra, l’Organizzazione Europea per la Ricerca Astronomica nell’Emisfero Australe ha installato quattro telescopi da 8 metri di diametro ciascuno. In mezzo ad una natura cruda ed essenziale, la punta della tecnologia astronomica: un contrasto apparentemente stridente, contraddizione che poi è l’elemento trainante de l’Ombra della Terra. E in alto, a coprire tutto, a farti dimenticare di avere delle radici piantate a terra, un cielo stupendo. Non importa quante volte lo hai visto. Ti lascia sempre senza fiato, senza memorie.

Ed è lì che alcune riflessioni hanno iniziato a estremizzarsi e la linea da seguire ha cominciato a disegnarsi più chiaramente. Non ricordo esattamente, ma doveva essere il 2002. Glauco aveva appena pubblicato “Gorizia”. Ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a parlare del progetto, che allora non aveva nemmeno un nome. Poi gli anni sono passati e tutto è rimasto fermo, anche se le idee hanno continuato a svilupparsi e a diramarsi. Fino all’agosto del 2007, quando finalmente ed improvvisamente, come a volte accade, mi sono sentito pronto.

O piuttosto, nel momento in cui ho capito che più pronto di così non sarei mai riuscito ad essere, e che era ora di liberare anni di introspezione e il desiderio di condivisione. E soprattutto dopo quella notte magica a Paranal, in cui sono uscito fuori con il lettore CD ed un paio di auricolari. Mi sono steso sul suolo pietroso del deserto e sotto la volta spaventosa del cielo, con il centro galattico sospeso sopra di me, ho liberato le note di “a racuei ti voi lis stelis”, nell’arrangiamento di Glauco. Il suo piano, il sax di Klaus Gesing, il coro del Friuli-Venezia Giulia. Persa la percezione della Terra, il suono pareva uscito dalle stelle, ed io a precipizio nel nulla. Un’esperienza che potrei dire mistica. Vissuta da un uomo di scienza e quindi al tempo stesso gloriosa e frustrante…
Nonostante ciò, quando Massimo, Glauco ed io ci siamo incontrati per la prima volta per lanciare questo progetto, non avevamo le idee affatto chiare su ciò che esso sarebbe stato. Ma eravamo tutti d’accordo su quello che lo spettacolo non sarebbe stato. Non sarebbe stato un pezzo teatrale in senso classico, né un concerto jazz, e neppure un
a conferenza divulgativa di astronomia. L’idea, infatti, era di estremizzare i processi di contaminazione che sia Glauco che Massimo avevano più volte messo in atto con la musica e il teatro.  Questa volta la contaminazione sarebbe stata più radicale, a prima vista quasi una contraddizione: la fusione di due espressioni artistiche con una disciplina scientifica, nell’immaginario comune legata ai grandi numeri, alla matematica e alla fisica e quindi, almeno apparentemente inconciliabile con l’arte.

Ed, in effetti, l’idea trainante è proprio l’esplorazione di questa stessa contraddizione, nel tentativo di rivelarne l’apparenza, nella speranza di sollevare una volta di più la questione circa la duplice natura dell’uomo, la dualità che emerge nel continuo conflitto fra la razionalità e l’emotività.

Per farlo abbiamo deciso di esagerare i tratti di questa dicotomia. Anzi, nei nostri incontri spesso ne abbiamo parlato come di una vera e propria schizofrenia. Ma perché scegliere l’astronomia fra tutte le scienze? Perché tentare di fonderla con il teatro, di accomunarla alla musica? Perché, insomma, cercare di usarla per comunicare qualcosa?

Inutile nasconderlo: uno dei motivi è che lo spettacolo parla di noi e parla di sè. E dunque è chiaro che doveva essere costituito dagli elementi che ci sono propri, dalle passioni che ci animano. Glauco, con la contaminazione fra generi musicali diversi, tramite la sua originalissima vena compositiva. Massimo, con la sua fortissima carica espressiva, impegnato a portare in scena le cose di ogni giorno e a trasfigurarle. Ed io, trascinato dal fascino per quello sconfinato specchio che è il cielo stellato e tutto ciò che esso invoca ed evoca.

Così l’Ombra della Terra esplora, o tenta di esplorare, i diversi aspetti dell’astronomia, sconfinando in regioni non propriamente scientifiche, estendendosi a forme e pensieri ai quali è legata anche in forma labile e ambigua. La paura del vuoto, la vertigine del cadere nell’abisso delle stelle, l’ispirazione artistica e filosofica che il cielo stellato ha generato nell’uomo. Ma anche la coscienza, accompagnata dal brivido, che il cielo che vediamo è lo stesso che l’uomo primitivo scrutava durante l’età della pietra, lo stesso che culture totalmente differenti in qualche modo condividono a dispetto delle distanze che le separano, lo stesso, infine, che i discendenti della stirpe umana vedranno fra diecimila anni. Il medesimo drappo nero, forato da punti di luce, che fa da sostrato culturale, che ci avvolge, che ci pone le stesse, eterne questioni. La frustrazione del non poterlo toccare, di volerlo ardentemente studiare e comprendere senza in effetti poterlo fare, non del tutto almeno. La ricerca di una verità, di una propria verità, del posto dell’uomo nell’universo. La costruzione della conoscenza, un pezzo alla volta, un uomo alla volta. Ed altri temi, che tocchiamo ma anche solo accenniamo, per giungere al finale, inatteso e disarmante.
Se ci venisse posta la domanda “qual’è lo scopo di questo spettacolo?”, forse la risposta più approp
riata sarebbe “farlo”. Per questo cerchiamo di condurre il pubblico ad alcune riflessioni, senza che vi sia necessariamente un messaggio esplicito, senza tentare di vendere alcuna verità o dare una lezione. Semmai una nostra, propria, personale e intima visione. Un’interpretazione, così come la scienza lo è della realtà. Per farlo usiamo la musica, le parole, le immagini, esplorandone e usandone le ambiguità, per suscitare emozioni e con lo scopo ultimo di far vivere allo spettatore ciò che noi abbiamo provato negli incontri che hanno portato a questo spettacolo.

Così, a cascate di numeri si inframezzano brani del teatro e della poesia classica, testi originali, improvvisazioni musicali, riflessioni a braccio e immagini astronomiche. Contrariamente a quello che uno potrebbe aspettarsi non ci saranno effetti speciali, perchè i protagonisti sono l’uomo e il cosmo, due sistemi sufficientemente complessi da non aver bisogno di alcun accessorio.

Diciamo subito anche un’altra cosa: il nostro è un trio improbabile. E si avventura in terreni paludosi, in un’esplorazione in equilibrio instabile fra razionalità ed emotività, sconfinando in regioni “dove i numeri emozionano e i sentimenti si organizzano, dove le distanze siderali si fanno intervalli per una melodia e le voci parlano di cose che la mente non sa contenere, indietro ed avanti nel tempo”, per usare le parole di Massimo.

Come ho detto tocchiamo diversi aspetti, anche apparentemente scollegati fra loro. Faccio solo un esempio. Nell’antichità si pensava che il moto di ciascun pianeta, essendo periodico come la vibrazione di una corda in un violino o della colonna d’aria in un flauto, producesse un suono, inavvertibile all’uomo. L’insieme di questi suoni doveva dare origine a quella che si chiamava “armonia delle sfere”. Insomma, l’universo era l’essenza dell’ordine, tanto che venne indicato come Cosmos (ordine, appunto), in contrasto con il Chaos terrestre. L’origine del frequente accostamento fra Musica ed Astronomia (che era una delle Muse) nasce proprio da questo fatto.

L’astrofisica moderna, però, ha mostrato che l’universo non è così incorruttibile come voleva Aristotele. Anzi, è estremamente inquieto, agitato da fenomeni di una violenza inimmaginabile, e in esso non vi è più spazio per l’armonia delle sfere. In altre parole, il cielo ha iniziato a “stonarsi”, a divenire una perfetta imperfezione. Glauco lo ha paragonato alla musica di Telonius Monk.

E come facciamo a rendere l’idea di questa stonatura? Non ve lo dico, però vi posso anticipare il concetto. L’improvvisazione jazz esce dalla rigidità delle regole e lascia spazio alla creatività del musicista che è libero, appunto, di introdurre delle perfette imperfezioni. La stonatura è solo apparente, così come il jazz non è il Chaos.

E ancora. Nella personalità di uno scienziato convivono due aspetti, quello razionale e quello emotivo ed è impossibile commutare dall’uno all’altro senza che vi resti almeno un residuo di uno dei due. Allo stesso modo, il musicista quando compone e l’attore quando recita non sono pura emotività. Dietro c’è un’attività che spesso sfugge, una preparazione tecnica, una logica in alcuni casi decisamente scientifica. Una dualità onnipresente, dunque.

Nell’astrofisica tutto ciò raggiunge un livello estremo. Come scrivono De Santillana e la Von Dechend nel loro Mulino di Amleto, “la scienza dell’astrofisica si protende su ordini di grandezza sempre più vasti senza perdere il proprio punto di appoggio; all’uomo in quanto tale ciò non è possibile: nelle profondità dello spazio egli perde se stesso e  ogni senso della propria importanza. Collocarsi entro i concetti dell’odierna astrofisica gli è impossibile, se non nella schizofrenia”. Questa dicotomia è il succo de l’Ombra della Terra, anche se vi tocchiamo anche altri temi. Uno di questi è la costruzione della conoscenza, cui ho accennato prima. La nostra percezione del mondo è influenzata, ovviamente, da quello che già di esso conosciamo. Le acquisizioni si accumulano, a formare un muro. Un muro che ci dà l’impressione della solidità e della stabilità, ma che agisce anche da barriera, che ci impedisce di avere una visione obbiettiva e che, in fondo e paradossalmente, ostacola la conoscenza stessa… ma non voglio dire di più.


Ma perchè questo titolo?


”Quando il sole scende, l’ombra di Paranal si allunga verso levante, e scorre sopra i cerros, si insinua sul fondo delle quebradas, fino a toccare l’orizzonte e a salire in cielo. Poco dopo, un’altra ombra, più maestosa, enorme, inizia a salire. E’ l’Ombra della Terra.

Il sole illumina il nostro pianeta da dietro e getta un’ombra sullo schermo etereo dell’atmosfera. Man mano che il sole scende sotto l’orizzonte, l’ombra della Terra sale in cielo, fino a scomparire, a fondersi  e a confondersi con il cielo stesso.

Quando guardi l’ombra della Terra hai la percezione delle sue dimensioni, sei conscio di esserci sopra. E quando poi fa buio e si apre il sipario del cielo australe continui a ricordarti che hai la Terra alle tue spalle, ci sei seduto sopra. Anche se è solo un granello di polvere e tu sei seduto su quel granello, è la tua terra, la tua casa. E’ il posto dal quale tu guardi l’universo. E scompare tutto, anche se ti porti dietro la storia del genere umano, i primi ominidi, i fossili del triassico e il brodo primordiale.”


Tutto ciò che facciamo e pensiamo ha luogo qui, all’Ombra della Terra.



Garching b. Muenchen, 30 Aprile 2008, Valpurgis Nacht

 

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