“l’Ombra della Terra”

una lettura critica


Max Olitz




Preambolo (a mo’ di scusa) - Patat mi ha chiesto di scrivere un pezzo di critica sul loro lavoro. Più che dire se mi è piaciuto o meno, parlerò semplicemente di quello che ho visto e di quello che ho capito. Non è detto che questo coincida con ciò che avevano in mente loro, ma ciò non ha  molta importanza, visto che loro stessi avevano dichiarato più volte negli articoli di giornale apparsi nei giorni precedenti allo spettacolo, che il loro scopo era lasciare che il pubblico si emozionasse e andasse a casa con una sua propria interpretazione. Quella che segue è la mia, piena di preconcetti, priva di obiettività e del tutto personale. Patat mi conosce e quando mi ha chiesto questo pezzo è chiaro che sapeva di non potersi aspettare altro da me.




Quando sono venuto a sapere che Somaglino, Venier e Patat stavano lavorando ad uno spettacolo, devo dire che la cosa mi ha incuriosito, anche se temevo che una collaborazione di questo tipo avrebbe potuto degenerare nella solita minestra riscaldata. Si sono già viste commistioni fra arte e scienza in cui si tentava di stemperare la freddezza di quest’ultima distraendo il pubblico con la musica e/o la recitazione. Quindi, quando ho ricevuto l’invito alla prima de L’Ombra della Terra, mi sono presentato al teatro di Artegna piuttosto scettico e, forse, anche un po’ prevenuto. Sipario chiuso e un sacco di gente, che quelli dell’associazione Amici del Teatro, [coraggiosi] produttori dello spettacolo, non sapevano più dove mettere.

All’apertura del sipario appare una scenografia piuttosto scarna e i tre protagonisti sono già tutti in scena. Sulla sinistra Venier seduto a un pianoforte a coda (ma c’é anche un sintetizzatore). In centro Patat davanti ad un laptop (direi acceso, dal pallido bagliore che manda lo schermo). Sulla destra Somaglino, in piedi su un rialzo, davanti ad un leggio. Ovunque, sul palcoscenico, dei libri. In pile, ma anche sparsi alla rinfusa. Direi qualche centinaio[1]. Sul fondale un’immagine del sole al tramonto, poco prima che si immerga in un mare di nuvole. Si capisce che la foto è stata ottenuta da un punto elevato.

Battendo sulla tastiera del computer Patat inizia a scrivere una lettera (o più probabilmente una email): “Cerro Paranal, deserto di Atacama, Cile. Ciao, Massimo [...]”[2]. E qui riconosco la prima autoreferenza. Patat scrive a Massimo [Somaglino], parlando di sé con una persona che é presente e che, almeno in quel momento non impersona altri che sè stessa. Sottigliezza abbastanza semplice da cogliere: lo spettacolo inizia parlando di sè[3].

Poco dopo, sopra la voce di Patat, si sente, con un certo ritardo, quella di Somaglino che legge le stesse parole. Patat è a Paranal[4], e scrive una lettera al suo amico Massimo, che la sta leggendo a casa sua. La prima voce cala e di lì a poco scompare, per lasciare il posto a quella di Somaglino.


“Ciao Massimo,


    1. il giorno sta per finire e le ombre si allungano sulle Ande. Il fondo delle quebradas si scurisce e quelle chiazze di sale che di giorno risplendono come la neve già non si vedono più. Mi trovo in un posto improbabile, più simile a Marte che a qualunque altro luogo sulla Terra. Eppure è il mio pianeta, la vecchia Terra di sempre. O forse no, non è la stessa. O magari sono io ad essere cambiato. Non lo so.

    2. Ci ho messo quasi due giorni ad arrivare fin qui dall’Europa. In aereo, fra Francoforte e Buenos Aires, ho fatto uno strano incontro.”


C’è quindi un primo cambio di persona, di luogo e di tempo. Infatti,il fuoco si sposta a qualche giorno prima quando, durante il viaggio dall’Europa, Patat dice di aver fatto “uno strano incontro”.

Va subito detto che, a questo punto, ho iniziato a pensare che,  in effetti, mi aspettavo qualcosa di completamente diverso. Tipo una proiezione di diapositive con le solite galassie e nebulose e un sottofondo musicale. Il tutto interrotto, a volte, da qualche poesia di Pascoli. Tutto sbagliato. Per il momento, di astronomia non si parla affatto. Di poesia, poi,  nemmeno l’ombra. E il piano tace.

Sull’aereo, Patat incontra due persone: un uomo di una certa età (un musicista, si capisce poco dopo) ed una bella donna, sui quaranta. Il racconto si sofferma a lungo sulle due figure. La donna estrae un quaderno “dalla copertina rigida”. Quando lo apre e inizia a scrivervi si capisce che dev’essere una matematica. Dapprima potrebbero sembrare due amanti, ma alla fine si comprende che sono padre e figlia.


    1. “Immediatamente scorsi qualcosa che accomunava quegli occhi. Non era il colore, perché l’uomo aveva gli occhi chiari mentre i suoi erano scuri. Eppure c’erano dei tratti in comune, forse non solo negli occhi, ma nell’intera espressione.“


In quel momento mi si schiariscono le idee. Il messaggio è piuttosto chiaro: vi è un legame fra la musica e la matematica e, più in generale, fra la l’arte e la scienza. Mi spingo un po’ oltre, e prendendo alla lettera la sequenza temporale (padre-figlia), è la scienza a derivare dall’arte.

Questo incontro, che non sapremo mai se sia reale o meno (ma poco importa), sembra messo lì “to set the stage”,  e cioè per introdurre un concetto che poi sarà alla base del resto dello spettacolo. Questo, ovviamente, uno lo può dire solo a posteriori. Quindi, per questo, penso l’Ombra della Terra vada visto due volte[5].

Dopo l’incontro il fuoco si sposta di nuovo sulla scena iniziale. Siamo tornati sul Cerro Paranal. Somaglino continua il racconto:


    1. “Ed ora sono qui e mentre ricordavo quello che mi è successo solo qualche giorno fa mi pareva fosse accaduto in un’altra vita. Devo raccontarlo anche a Glauco.

    2. Quindicimila chilometri. Ma sono gli ultimi duecento che mi separano veramente dal resto del mondo. Dal porto minerario di Antofagasta giù per la panamericana è come se avessi fatto un viaggio interplanetario. Solo polvere, pietre, montagne e un cielo d’un azzurro accecante. Mi viene sete ogni volta che ci penso, anche quando mi trovo sulle colline del Friuli.”


Di nuovo l’autoreferenza, con la menzione a Glauco [Venier]. Ma poi il primo balzo nello spazio. Non sono tanto i quindicimila chilometri che separano il viaggiatore dalle colline del Friuli (non in quanto tali, ma in quanto “Heimat” del viaggiatore), ma le ultime centinaia di chilometri fatte attraverso il deserto di Atacama. Sul fondale scorrono le immagini di quel deserto pietroso, i suoi colori che contrastano con l’azzurro “accecante” del cielo. In effetti, ricordo alcune delle immagini delle pianure di Marte prese da Pathfinder. Non c’e’ molta differenza. Ma non è solo questo. E’ il passo smisurato che si sta per fare. Di Cerro Paranal, Patat fa dire a Somaglino:


    1. “Un avamposto dell’umanità, quasi una base spaziale. E’ la frontiera ultima, la costa di un mare che sta per diventare scurissimo. Sono le colonne d’Ercole del genere umano, la porta del cielo.”


Ed è a questo punto che il titolo dello spettacolo prende significato. L’ombra è una specie di specchio, nel senso che vedere la propria ombra crea la consapevolezza delle proprie dimensioni. Così per la Terra. Il tramonto del sole non è che il nostro ingresso nel cono d’ombra generato dalla Terra stessa. La sua ombra si proietta sul cielo e la vediamo salire come una fascia scura[6]. Ma non si tratta solo del solo fenomeno fisico. E’ anche il fatto che


    1. “Quando guardi l’ombra della terra hai la percezione delle sue dimensioni, sei conscio di esserci sopra. E quando poi fa buio e si apre il sipario del cielo australe continui a ricordarti che hai la terra alle tue spalle, ci sei seduto sopra. Anche se è solo un granello di polvere e tu sei seduto su quel granello, è la tua terra, la tua casa. E’ il posto dal quale tu guardi l’universo. E scompare tutto, anche se ti porti dietro la storia del genere umano, i primi ominidi, i fossili del triassico e il brodo primordiale.”


Insomma, uno strumento per rendersi conto della nostra terrestrità. Ed è da questa presa di coscienza del nostro posto che inizia veramente il viaggio de l’Ombra della Terra.


    1. La lunga finestra che guarda verso l’oceano viene oscurata e perdo l’ultimo contatto con la terra. Ora sono nella sala di comando di un’astronave che esplora lo spazio ignoto.


E non posso fare a meno di chiedermi: “che cosa sto facendo qui?”


La domanda è ambigua (e non poteva essere diversamente). A prima vista lo spettatore capisce che Patat si sta chiedendo, in quel momento contingente, che cosa stia facendo a quindicimila chilometri da casa, in mezzo ad un deserto, nella sala di controllo di uno dei maggiori telescopi sulla terra. E, in effetti, la stessa domanda credo se la siano posta in molti in sala[7].

Ma questa domanda, in realtà, contiene il seme di un dubbio più profondo e radicale. Non è lui. E’ l’uomo stesso a chiedersi che cosa stia facendo qui. Qui inteso come “sulla terra”, in “questo universo”. La solita domanda delle domande. Però, lo ammetto, in questo caso ben mascherata. Nonostante la domanda sia esplicita (se estratta dal contesto), è difficile coglierne l’ambiguità. Tutta la storia del viaggio, l’incontro, le immagini evocative che corrono sul fondo ci avevano legati alla vicenda in sé. Ma non era che un trucco scenico. Il seme però è gettato e, per quelli che lo colgono, resta vivo per tutto il resto dello spettacolo. Fino al finale.


Terminata la lettura, qualche istante di silenzio. La scena è immobile. Ma per poco. Sulla sinistra del palcoscenico, illuminato da una lama di luce, entra in scena un grande pendolo, che oscillerà per tutto il reso dello spettacolo. L’oscillazione è lenta, e quando raggiunge il suo primo punto estremo, entra la musica. Venier, usando il sintetizzatore con un suono piuttosto distorto, ne segue il  ritmo, come fosse un gigantesco metronomo. Per questo mi è subito chiaro che significato della macchina scenica. Il tempo. Stiamo per fare un salto nel tempo.

Il moto periodico del pendolo ha un effetto mesmerico. La sfera metallica appesa ad un cavo d’acciaio è lucida e la luce che arriva dall’alto ne viene riflessa e va da illuminare in modo ritmico i libri accatastati dietro il piano di oscillazione.

E sono i libri ad essere al centro dell’evento successivo, quando i tre protagonisti ne raccolgono alcuni da terra e, dicendone il nome dell’autore, li collocano uno sopra l’altro, a costituire una pila, una colonna, che andrà crescendo durante lo spettacolo. Facendo un po’ di attenzione ci si rende conto che ognuno di loro ha operato una scelta di autori, del tutto personale, ciascuno nel suo proprio campo. Per Venier si tratta di musicisti, per Somaglino sono scrittori e poeti. Per Patat  scienziati. Si sentono così nomi noti, come Galileo, Shakespeare, Bach. Ma anche meno noti al grande pubblico, come Zwicky, Campana o Messiaen[8].

E qui il messaggio era chiaro a tutti. Una scelta di personaggi, forse i più cari ai protagonisti, a rappresentare tutto il genere umano e la conoscenza che questo è riuscito a costruire. In quella colonna ci sono anche i Leonardo, i Mozart e i Cervantes della preistoria, di cui non abbiamo conosciuto il nome e anche quelli di cui  il nome non conosciamo ancora. In fondo, anche tutti noi.

Parte una registrazione. Una voce recita una nenia in una lingua incomprensibile. Il foglio di sala ci aveva avvertiti che Jayant Narlikar avrebbe letto l’Inno della Creazione dai Rig Veda in sanscrito[9].

Sullo sfondo corrono immagini di nebulosità decisamente astrofisiche. Ma il cantilenare in sanscrito e le sonorità elettroniche di un Venier mai sentito prima le trasformano in nebulose metafisiche, come nebbie nel tempo. Dopo poco Somaglino parte con quella che immagino essere la versione in italiano dell’inno vedico. Apprezzabile. Soprattutto perché la intendo come un tentativo di evadere dalla tradizione ebraico-cristiana della Genesi[10]. Anche se stilata parecchio tempo dopo il Libro della Genesi (ma comunque attorno al 1200 a.C.), Nasadeeya Suktham (l’inno della Creazione, appunto), ci trasporta indietro nel tempo, comunicando un senso di antichità insondabile. E pronunciato in sanscrito da uno scienziato, un cosmologo che ha lavorato con sir Fred Hoyle, fa rabbrividire.


All’inizio non v’erano né l’Essere né il Non-essere.

Non c’era né l’aria, né il cielo al di là di essa.

Che cosa l’avvolgeva? Dove? A protezione di chi?

C’era l’acqua, insondabile e profonda?


[...]


Ciò da cui la creazione è scaturita,

Se questo la tenne in suo potere oppure no,

Colui che la sorveglia nel cielo più alto,

Egli certamente sa, o forse non lo sa affatto.



La conclusione sottende un’ipotesi sconcertante. Colui che sorveglia la creazione, egli certamente sa da che cosa questa sia scaturita; o forse non  lo sa affatto. In un qualche modo, l’antico inno pare riallacciarsi alle teorie moderne, secondo cui l’universo è nato per caso. Ma questo ovviamente lo si coglie solo ad una seconda e più approfondita lettura dello spettacolo. Alla prima visione si resta affascinati dalla fusione fra le immagini, i suoni, e la cantilena vedica. Quale di questi tre sia più importante o contenga un messaggio, in quel momento non é rilevante.


Mentre sto ancora riflettendo sul significato (o sul messaggio che si voleva far passare), Somaglino ci riporta ad un tempo più vicino, anche se mi ci vuol poco a capire che siamo nel ‘700. Si tratta di un brano da  John Dryden (“Una canzone per il giorno di S. Cecilia”). Siamo agli antipodi di Nasadeeya Suktham.


From harmony, from heavenly harmony,

         This universal frame began:

   When nature underneath a heap

         Of jarring atoms lay,

      And could not heave her head,

The tuneful voice was heard from high,

      "Arise, ye more than dead!"


Then cold, and hot, and moist, and dry,

     In order to their stations leap,

           And Music's power obey.

From harmony, from heavenly harmony,

       This universal frame began:

       From harmony to harmony

Through all the compass of the notes it ran

The diapason closing full in Man.


       As from the power of sacred lays

            The spheres began to move,

       And sung the great Creator's praise

            To all the Blest above;

       So when the last and dreadful hour

       This crumbling pageant shall devour,

       The trumpet shall be heard on high,

       The dead shall live, the living die,

       And Music shall untune the sky!


Il brano menziona le sfere [celesti], che muovendosi generano ognuna un suono, che fondendosi con gli altri crea quella che viene chiamata armonia delle sfere. Fa così la sua apparizione, anche se velato e per interposto poeta, il mito di Er, di cui parla Platone nella Repubblica[11]. Devo dire che me lo aspettavo, anche se forse in una versione più esplicita. Eppure se ne fa una sola allusione. Per distruggerlo subito dopo.

L’ultimo verso, infatti, profetizza che sarà la musica stessa a scordare, a introdurre la stonatura nel cielo (And music shall untune the sky). Verso criptico, che tuttora non capisco[12].

Quello che per contro mi è chiaro è che l’antica visione di un universo incorruttibile e immutabile è stata sconvolta dalla moderna astrofisica, a partire da Galileo che scopre la superficie lunare piena di monti, valli ed anfratti, simile alla Terra. Non quella liscia sfera si pensava che fosse. Come se si dicesse: “Le Moire non cantano più il destino dell’uomo sulle armoniche note delle Sirene.”.

Ed è a questo che si riconduce l’atto successivo dello spettacolo. Venier, seduto al piano, inizia a suonare un pezzo, che subito riconosco essere di Bach[13]. Ignoro il motivo per cui Venier abbia scelto quel brano, ma mi è abbastanza chiaro il motivo per cui ha scelto Bach, e di Bach un pezzo di contrappunto. Uno dei motivi è Patat stesso a dircelo con la voce di Somaglino. Nella lettera iniziale, il musicista incontrato sul volo per Santiago, chiede al viaggiatore:


- “Le piace Bach?”

- “Bach è... è il mio autore preferito”.


Il tratto d’unione fra il contrappunto e l’universo apparirà più chiaramente dopo, in modo esplicito, in uno dei tre interventi di Patat. Ma il primo riferimento viene posto qui[14].

La geometria del pezzo appare subito, anche a chi non lo conosce. Il tema, cromatico, viene sviluppato e ripreso. Con l’ordine matematico tipico di Bach. Ma anche con la passione che va oltre quella geometrizzazione[15]. Lo sforzo di combinare un soggetto complesso come quello di questo pezzo con il suo controsoggetto, le sue riprese, le modulazioni e le sue elaborazioni, scompare. Chi ascolta non ne è più conscio. L’ordine rigoroso che vi è dietro è così perfetto che non si vede più.

Ma accomunare l’ordine contrappuntistico con quello dell’universo era un’idea troppo banale e, onestamente, mi aspettavo un qualche cambiamento. E, in effetti, nel momento in cui il pezzo avrebbe dovuto terminare, Venier continua. Il tema viene riproposto; è ancora riconoscibile, ma per poco. Inizia una trasmutazione melodica, armonica e ritmica, che porta ad una situazione quasi stocastica.  Dell’ordine iniziale s’è persa ogni traccia. Il Cosmos è diventato Chaos. Il brano termina con Venier che colpisce la tastiera in più punti con l’intero avambraccio.


A questo punto, un nuovo salto nel tempo e nello spazio, segnato dall’aggiunta di nuovi libri alla colonna che va sorgendo in mezzo al palcoscenico. Altri nomi, di nuovo, famosi e sconosciuti.

Ma è la voce di Patat, questa volta, a riportarci al presente tempo e al locale ordinario spazio euclideo. Come? Parlandoci di sé e della sua percezione di sé e del proprio modo di concepire la scienza.


    1. “Che cos’è il cielo? Questa volta muta che ha visto crescere l’umanità, dai suoi primi passi mossi in posizione eretta sino alle missioni spaziali e alla nascita dei telescopi giganti.

    2. Ma che cos’è? E’ forse il profondo mare attraverso il quale il sole scioglie le sue vele durante il giorno? O il fiume vaporoso di nuvole che scorre obbediente al comando del vento? E’ la casa di costellazioni insonni, dove dei silenti erano soliti abitare nelle loro sale celesti? O non è piuttosto solo una proiezione geometrica di cento miliardi di stelle su un piano senza profondità, sul quale altri miliardi di galassie nascoste giacciono e seguono la danza cosmica, quella che Einstein aveva chiamato Newton’s Bahn, il piano di Newton?”


E ne emerge un quadro umano, più umano di quello che accompagna nella visione comune la figura degli scienziati, almeno nelle persone che della scienza non hanno fatto la ragione della propria vita. Alla fine di questo suo intervento (sarà il primo di tre), non privo di una certa poetica, emerge la vera ragione che lo ha spinto in questa direzione, in tutta la sua utopica follia:


    1. “L’effetto di tutto questo, ai miei occhi, sono due fiumi di pensiero, che si formano e scorrono.

    2. Da un lato quelli che hanno una fede incrollabile nella scienza. Dall’altro quelli che credono la scienza non abbia spiegazioni per troppe cose e si arrendono alla tentazione dell’irrazionale.

    3. Non mi sento di appartenere a nessuna delle due correnti.

    4. Sento invece di star precipitando nell’abisso fra le due, nel tentativo di costruire una mia propria verità, la vera ragione per cui mi sono avvicinato alla scienza.”


Emergono anche i dubbi e le paure, ma anche un'avvenuta presa di coscienza circa la natura della scienza stessa e i suoi limiti:


    1. “Ogni essere umano  è figlio del suo tempo, così che è difficile discernere il modo intimo con cui esso percepisce il mondo da ciò che invece è ereditato. Nella gran parte dei casi l’interpretazione della è inevitabilmente dettata da ciò che di lei noi già conosciamo. 

    2. Non siamo mai completamente liberi di guardare la natura come osservatori isolati e incondizionati. La nostra aspirazione alla verità viene in qualche modo ostacolata.

    3. E’ la conoscenza che ostacola la conoscenza.”


Cosa che in un mondo fin troppo scientista non può che farmi piacere. Ed è su questa linea che continua lo spettacolo. Con un salto indietro, ci ritroviamo sul palcoscenico Galileo Galilei. E’ l'inizio della “Vita di Galileo” di Bertold Brecht, quando Galileo spiega al suo giovane allievo il sistema copernicano. Il testo è stupendo, ovviamente, e Somaglino lo restituisce in maniera eccezionale. Ad un certo punto Galileo dice che un giorno “si parlerà di astronomia anche nelle piazze”. E non posso fare a meno di notare che è esattamente quello che sta accadendo, in un’ulteriore e, devo dire, ben nascosta, autoreferenza.

E ancora: “L’universo nel giro di una notte ha perduto il suo centro, e la mattina dopo ne aveva un’infinità.” Brecht si riferisce a quella notte del 1609, quando Galileo ha rivolto per la prima volta il telescopio al cielo. Dopo quella notte il cielo non sarebbe più stato lo stesso... Si inizia a intravedere la sconfinata immensità che sta per piombarci addosso.


Ed è con i protagonisti della rivoluzione scientifica che Patat riprende a parlare di sè:


    1. “Diciamoci la verità. Ero, e forse sono ancora, attratto dal fascino di porre il piede sullo stesso palcoscenico dove Tycho, Keplero, Galileo, Newton hanno recitato i loro capolavori immortali.”


e tradisce quella tensione che, profonda e velata, in fondo in fondo lo trascina e che sconfina in un’ambizione che rimarrà insoddisfatta. Accanto al desiderio di ricercare una propria verità, non fosse che quella (misera?)  di una conoscenza più approfondita dell’universo che lo circonda. Nel resto dell’intervento Patat stabilisce il contatto fra il cielo della notte e tutta l’umanità che lo ha guardato prima di lui. Per quanto assurdo e paradossale ciò possa sembrare, l’universo fuori dalla terra riconnette l’uomo alla terra stessa. Dura da digerire ma non implausibile.

Patat termina ribadendo, ora più esplicitamente, il carattere contrappuntistico dell’universo[16]:


    1. “L’universo ti spiazza, perché è come una fuga. Non sai mai se devi concentrarti su una voce alla volta, tentare di isolarla, di seguirla, di comprenderla, oppure cercare di percepire l’armonia del tutto, l’insieme delle voci, la loro coralità, il risultato complessivo. L’universo.”



Ed è Venier, con una delle sue improvvisazioni, a riportarci a terra. Anche se il brano, basato su una lauda del XV secolo,  s’intitola “se tutto’l ciel”[17]. Colgo il legame, anche se immagino quasi nessuno in sala se ne sia reso conto. Ho spesso l’impressione che i tre sul palco avessero in  mente di colpire il pubblico a livelli diversi. Ma forse è solo un caso...

Mentre ascolto Venier il mio sguardo si fissa sul pendolo, che continua a oscillare ininterrottamente. L’ampiezza si è decisamente ridotta rispetto all’inizio dello spettacolo. Ma c’ è qualcos’altro che è cambiato e ci metto un po’ a capirlo. Sono arrivato in sala all’ultimo minuto ma mi avevano riservato un posto in prima fila, anche se non molto centrale. Per questo vedo il pendolo un po’ di sbieco, quel tanto che basta per cogliere una sottigliezza: la direzione in cui oscilla sta cambiando nel tempo. In poche parole, si tratta di un pendolo di Foucault[18]. Così, ai ruoli di metronomo e di macchina del tempo se ne aggiunge uno, più sotterraneo: quello di messaggero della mobilità della terra. Fra non molto Patat ci nauseerà con i numeri e inizierà proprio parlando del moto della terra (che poi è anche quello di cui ci ha appena parlato Somaglino dando voce a Galileo, che dice “una nuova astronomia, che faccia muovere un po’ anche la terra!”). Eppure, tutto ciò era già presente, in scena dall’inizio dello spettacolo.


Patat riprende a parlare. Ora il fuoco si sposta sempre più sull’uomo e sull’umanizzazione dell’astronomia. Tanto da arrivare a paragonarla ad un rapporto incompleto e incompletabile.


    1. “Anche se la nostra visione cosmologica è evoluta significativamente, l’unico modo di progredire in questo campo è osservare attraverso la vuotezza degli spazi siderali. E’ il diletto e la tortura degli astronomi. Un rapporto incompleto, monco, senza speranza. Un amore non corrisposto, non corrispondibile...”



Il disordine che pareva essere il prodotto della scienza moderna, si riversa ora sull’umanità. Lo capiremo meglio in pochi minuti, ma l’uomo, così come lo conosciamo, non rappresenta che un’infima frazione del grande anno cosmico. Eppure, nonostante ciò, ha l’ambizione di capire tutto il resto, del tempo (in cui non ha avuto alcun ruolo) e dello spazio (che non ha mai visitato).


    1. “E quello che mi emoziona, mi stupisce e mi commuove, alla fine di tutto, è l’uomo stesso. Nonostante la dimensione ridicola del suo orizzonte rispetto a quello dell’universo con cui si confronta; nonostante abbia a disposizione leggi fisiche derivate negli ultimi trecento anni ed entro confini limitatissimi. Nonostante ciò egli tenta di comprendere, di concepire l’universo. Anche se in un’inevitabile, profonda e incosciente schizofrenia.”


Mente Patat conclude, sul fondo sale un’enorme luna piena, con i suoi mari e i suoi crateri. Venier parte con quello che credo sia un pezzo ispirato ad un brano di Erìc Satie. E quando questa riempie lo schermo, con la sua abbagliante rotondità, sopra le note di Venier, Somaglino parte con un brano


    1. -“Elicone!”

    2. -”Che c’è, Caligola?”

    3. -”Voglio la luna!”

    4. -”La luna? E per farne che?”

    5. -”E’ una cosa che non ho...”


Non mi ci vuole molto a ricordare. Si tratta di un pezzo tratto dal “Caligola” di Albert Camus. Caligola è apparentemente pazzo, e agli avvertimenti di Elicone circa un complotto volto ad ucciderlo, risponde che lui, la luna l’ha già avuta.


    1. -L’ho avuta, completamente. Soltanto due volte, è vero. Ma insomma... sì, l’ho avuta.

    2. -E’ un pezzo che sto cercando di parlarti.

    3. -L’estate scorsa, l’avevo tanto guardata e accarezzata sulle colonne del giardino, che aveva finito per capire.

    4. -Piantiamola con questo gioco, Caligola. Se tu non vuoi ascoltarmi è mio compito parlarti ugualmente. Tanto peggio se non starai a sentire.

    5. -Questo smalto non vale niente... Ma per tornare alla luna, era una bella notte d’agosto. Lei ha fatto un po’ di storie, io ero già a letto. All’inizio era tutta insanguinata sull’orizzonte. Poi ha cominciato a salire sempre più leggera, con rapidità crescente. Più saliva, più diventava chiara. Infine è diventata come un lago d’acqua lattiginosa nel centro della notte. Animata dal fremito delle stelle. Allora, nel caldo, è venuta da me. Dolce. Leggera. Nuda. Ha superato la soglia della camera e con maestosa lentezza si è spinta fino al mio letto, ci è scivolata dentro, e mi ha inondato di sorrisi e di bagliore. Decisamente questo smalto non vale niente...


Bellissimo l’intreccio che si crea fra il fraseggio di Venier e le battute di Camus. Tutto da ascoltare e vedere. E per questo si fa fatica a comprendere il perché di questo brano in questo punto dello spettacolo. Ci sono troppe altre cose cui fare attenzione. In effetti, di nuovo, è stato solo dopo averlo rivisto che ne ho colto la ragione. Dall’ordine del cosmo siamo passati attraverso la stonatura nel cielo, per arrivare, infine, alla scordatura dentro l’uomo, all’apparente inconciliabilità fra il suo orizzonte ridicolo, che riempie tutta la sua scena, e il tutto, l’incommensurabilmente grande.

Per l’ultima volta i tre scelgono dei libri e li ripongono sulla sommità della colonna, che si erge ora in mezzo al palcoscenico. Davvero, a questo punto, non era affatto chiaro quello che sarebbe dovuto logicamente accadere.


Per quasi quindici minuti, Patat produce una cascata di numeri. A partire dalle dimensioni della Terra fino alle distanze intergalattiche. E, nel farlo, di tanto in tanto confronta con le scale umane. Ad ogni salto (la luna, il sole, il sistema solare, la stella più vicina, il centro della galassia, la galassia più vicina, gli ammassi di galassie, le distanze fra gli ammassi, le dimensioni dell’universo visibile), per rendere le cose comprensibili, è costretto a fare delle riduzioni in scala. Che dopo un po’ divengono un puro scioglilingua di zeri[19]. Il monologo sembra interminabile e vedo attorno a me alcuni segni di insofferenza. E non sono sicuro si tratti di stanchezza o noia. No, è qualcos’altro. E ’ il disagio profondo di chi è forestiero e vuole tornare a casa, fra la sua gente, dove ogni cosa è conosciuta e familiare. Sì, è chiaro, è ora di tornare all’ombra della terra.


Alla fine, come si scriverà in un giornale il giorno dopo, il pubblico è ubriaco. Dopo aver deposto uno dei fogli di appunti in cima alla pila di libri (forse a significare il suo piccolo, personale contributo all’edificio della conoscenza) Patat si avvicina al pendolo, ancora animato da un leggero fremito.

Con le mani lo ferma, e mentre lo fa pronuncia le sue ultime parole:


    1. ”Per rendere comprensibili le scale galattiche ed intergalattiche, abbiamo reso inconcepibili le scale umane”.


Le tre figure sono immobili. Avverto la tensione in sala. E’ palese che qualcosa sta per accadere. Non possono lasciarci così, sgomenti, senza sapere qual è il nostro posto nell’universo. In più mi chiedo che cosa di non scontato o banale possano dire dopo questa tirade vertiginosa.

Dal lato sinistro del palcoscenico irrompono inattesi (ma benvenuti!), dei bambini. La tensione in sala, come d’un tratto, è scomparsa. E scomparso è quell’orrore del vuoto che fino a pochi attimi prima saturava l’aria. Siamo ricondotti al qui e all’adesso di punto in bianco e di tutto il percorso fatto sin qui, di quei milioni di anni luce, pare non esserci più memoria. E tutto ha luogo in tempi brevissimi. Le luci (curate da Claudio Parrino) cambiano repentinamente e il fondale, che ha visto scorrere una miriade di immagini astronomiche, diventa di un colore perlaceo e le figure sul palco si stagliano in un controluce surreale.

La più grandicella della banda chiede “Papà, dov’è il libro del Mostro Peloso?”. Senza lasciare il tempo per una risposta. “Ah, eccolo!”  Si avvicina alla pila di libri e prima che qualcuno riesca a reagire, ne toglie uno alla base, causandone il rovinoso crollo.

Il pubblico, fino a quel momento silenziosissimo, si lascia sfuggire un malcelato “oh”. Non ne sono sicuro, ma ho l’impressione sia un segno, incontrollato, di sollievo. E’ il crollo della conoscenza, di un edificio costruito a fatica da tutta l’umanità. Ma è bastata l’ingenuità di un bambino a mandarlo in pezzi. Eppure, nonostante il crollo, la vita sembra continuare immutata nell’universo dei piccoli.

I bambini si raccolgono attorno alla più grande, che inizia a leggere. “Nel bel mezzo di una foresta fitta fitta, in una caverna umida e buia, viveva un mostro peloso.”

Mentre continua la lettura, il sipario si chiude.

Fra gli scrosci degli applausi che si protraggono per molti minuti, sento una signora dire alla sua vicina: “E’ questa la risposta alla domanda iniziale...”. Sul momento mi  è venuto da sorridere, per la sincera ingenuità. Ed ho sorriso. Ma pensandoci bene, qui nella quiete del mio studio, forse aveva ragione. Quella poteva essere una risposta alla domanda delle domande: “Che cosa sto facendo qui?”.


Leggendo questo breve saggio, l’impressione che uno ne trae è quella di uno spettacolo cerebralista, colmo di simbologie più o meno velate, di messaggi più o meno espliciti. Ma, in realtà, il trio Patat-Somaglino-Venier non ha mai dichiarato di voler dire tutte queste cose. Forse, non voleva dirne nemmeno una... Potrebbe semplicemente trattarsi di una mia sovrinterpretazione, di una forzatura introdotta dal critico nella sua deformante attitudine a cercare una ragione dietro a ogni segno. L’unica cosa che ci avevano detto era il loro scopo: suscitare emozioni, lasciando lo spettatore libero di tornare a casa  con una sua propria lettura.

Questa è solamente la mia.



                  1. Max Olitz, 2008 (C)



NOTE


[1] Col senno di poi, ne avrebbero potuti mettere molti di più. Probabilmente si  è trattato di un puro problema pratico.

[2] Questa e altre citazioni sono tratte dal testo, che Patat mi ha dato quando mi ha chiesto di scrivere questo pezzo.

[3] Il tema della fuga viene ripreso un paio di volte nello spettacolo.

[4] Contrariamente a quello che poi hanno scritto i giornali, Paranal non è nella Terra del Fuoco. E’ invece in pieno deserto di Atacama, sulle Ande cilene,

circa 1200 km a nord di Santiago. Lo so perché avevo visto un servizio a SuperQuark.

[5] Ammetto che, prima di scrivere questo breve saggio, ho rivisto la registrazione dello spettacolo di Artegna.

[6] Mi sono informato. Il fenomeno è visibile solo in siti in cui il cielo è molto trasparente e l’orizzonte sgombro da montagne.

[7] Prima che si aprisse il sipario, una signora seduta dietro a me, parlando con una sua vicina dopo aver letto il foglio di sala, francamente le diceva di non capire gli astronomi. Il cielo è là, intoccabile. Che noi lo studiamo o meno, che lo capiamo o meno, non ha alcun effetto o conseguenza sulla nostra vita. In sostanza, non avevo nulla da ridire su quel modo di vedere.

[8] Fra i nomi pronunciati da Venier c’è stato quello di Jimy Hendrix. Non so per quale motivo, ma ciò ha fatto un certo effetto sul pubblico, che lo ha accolto con un sommesso “oh” di sorpresa.

[9] Jayant Narlikar, di origine indiana, è stato professore di Cosmologia a Cambridge. Allievo di Sir Fred Hoyle, ha conseguito molti riconoscimenti internazionali. Attualmente dirige lo Inter-University Centre for Astronomy and Astrophysics a Pune, India. Oltre ad una vasta produzione scientifica, Narlikar ha scritto diversi libri di divulgazione (alcuni di questi tradotti anche in italiano, come  ad esempio “Le sette meraviglie del cosmo”) e di fantascienza. Patat mi ha raccontato di averlo conosciuto presso l’istituto in cui lavora, nei pressi di Monaco di Baviera, dove Narlikar è stato ospite per sei mesi. Con lui ha pure iniziato una collaborazione scientifica. Non ho capito bene di che cosa si tratti, ma ha a che fare con la ricerca di stelle vecchissime. Più vecchie dell’universo. Chiaramente devo aver inteso male. I figli non possono essere più vecchi del padre...

[10] Si ricorderà uno degli astronauti di una missione Apollo mentre legge il Genesi in orbita intorno alla Terra. Ne ha fatto uso anche Mike Oldfield in “Songs from a distant Earth”.

[11] Scrive Platone: “Il fuso ruotava sulle ginocchia di Ananke. Su ciascuno di suoi cerchi, in alto, si muoveva una Sirena, che emetteva una sola nota di un unico tono; ma da tutte otto risuonava una sola armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza, ciascuna sul proprio trono: erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo, vestite di bianco e col capo cinto di bende; sull'armonia delle Sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto con la mano destra toccava a intervalli il cerchio esterno del fuso e lo aiutava a girare, e lo stesso faceva Atropo toccando con la sinistra i cerchi interni; Lachesi accompagnava entrambi i movimenti ora con l'una ora con l'altra mano.” (Platone, Il mito di Er, La Repubblica, Libro X). Ananke (letteralmente 'necessità'), simbolo della legge eterna e immutabile che regola l'universo, rappresenta qui l'ordine razionale e morale del cosmo. Secondo la variante del mito seguita da Platone, da lei nacquero per partenogenesi le Moire, ovvero le tre dee che presiedevano ai destini individuali degli uomini: Lachesi li assegnava per sorteggio, Cloto li filava, Atropo li rendeva immutabili e tagliava il filo al momento della morte. Per questo Ananke ha come suo attributo il fuso, che gira al centro della colonna di luce e imprime il moto rotatorio a tutte le sfere celesti. Dall'esterno all'interno gli otto fusaioli concentrici rappresentano, secondo l'ordine pitagorico, il cielo delle stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, il Sole, la Luna. Mentre l'insieme del fuso ruota da oriente a occidente, i singoli fusaioli ruotano in senso contrario, ad eccezione del primo; ciò simboleggia il moto regolare e concentrico del sole e degli altri pianeti, già noto nell'antichità. Le Sirene rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti; il loro canto è quindi la musica delle sfere celesti.

[12] Curiosamente, dopo una ricerca su Google, ho scoperto che lo storico della musica John Hollander ha scritto un libro che si intitola “The Untuning of the Sky”. Non l’ho letto.

[13] Si tratta dell’Invenzione n. 9, dalle Invenzioni a Tre Voci.

[14] E’ difficile da cogliere alla prima visione, quando si è concentrati più su quello che sta accadendo che sul messaggio che ciò potrebbe portare con sé.

[15] Il pezzo è in Fa minore, tonalità spesso associata alla passione. Glenn Gould, famoso esecutore di Bach, ha detto che se egli fosse stato una tonalità, sarebbe stato il Fa minore.

[16] E’ stato a questo punto, durante lo spettacolo, che ho compreso il significato del pezzo di Bach e mi si è svelata la presenza delle autoreferenze viste sino a quel momento ma rimaste in sospeso.

[17] Il pezzo originale è una lauda di Pietro Capretto (Pordenone 1427)- L’ho sentito la prima volta nel CD “L’Insium” del Glauco Venier Trio (1997).

[18] Quando un pendolo viene posto in movimento, il piano di oscillazione tende a mantenere invariata la propria direzione, anche se il supporto a cui è fissato, ad esempio, ruota. Per questo motivo, se il pendolo viene fatto oscillare abbastanza a lungo, il suo piano di oscillazione mostrerà una rotazione apparente (di fatto lui resta fisso, ed è la terra a ruotare sotto di esso (l’ho letto su wikipedia). Se ci trovassimo esattamente al polo nord (o al polo sud), il piano di oscillazione ci metterebbe ventiquattr’ore a compiere una rotazione completa (tanto ci mette la terra a fare un giro su è stessa). All’equatore non si muove affatto, mentre  alla nostra latitudine ci mette circa 33 ore, (anche se non ho capito perché...). Ciò significa che un’ora dopo l’inizio dello spettacolo il piano di oscillazione ha ruotato di circa un trentesimo di giro completo, abbastanza per poterlo vedere a occhio nudo se si ha qualche punto di riferimento.

[19] In questo monologo intravedo, anche se con le dovute differenze, il poema cosmogonico Eureka di E.A. Poe. I tratti in comune sono il soggetto, simile, ma soprattutto il tragitto [delirante] che ci portano a compiere.

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